Il 6 aprile 2020 è stato il centenario della nascita di Delfino Insolera (1920-1987), primo presidente del Centro Villa Ghigi (dal 1982 al 1987), oltre che protagonista originale della cultura italiana del dopoguerra, con esperienze lavorative importanti, tra cui quelle all’Olivetti e, qui a Bologna, alla Zanichelli, di cui fu direttore editoriale dal 1960 al 1970 e poi consulente. Molti dei suoi amici più cari, come lo storico Claudio Pavone e l’architetto Giancarlo De Carlo, non ci sono più, ma sono ancora molti quelli che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e condividere qualche esperienza con lui negli anni bolognesi e ne conservano un ricordo indelebile.
Tra questi ci siamo noi della Fondazione, perché il Centro Villa Ghigi è stata l’ultima delle sue “imprese” e tutti dobbiamo moltissimo a questo maestro inarrivabile e generoso, che ha inventato per noi una strada e ci ha incoraggiato a percorrerla.
Avevamo pensato che il modo migliore per ricordarlo e manifestare la nostra riconoscenza fosse di dedicargli una giornata nella nostra sede e nel parco, dalla mattina alla sera, con un programma studiato ma abbastanza informale (come sarebbe piaciuto a lui), invitando a essere presenti e a parlare varie persone che lo hanno conosciuto e arricchendo la giornata con brevi passeggiate in punti del parco che amava, letture di suoi testi e altre piccole sorprese. La giornata migliore ci era parsa sabato 4 aprile, dalle 9 del mattino alle 21 di sera, ma la pandemia ci ha costretti a rinunciare.
A memoria dell’evento abbiamo lasciamo un bel saggio di Delfino Insolera, che tra le tante speciali qualità aveva anche quella di essere uno squisito scrittore, sulla geomorfologia della collina di Bologna, pubblicato nei primi anni ’80 del secolo nel volume La collina di Bologna. Un patrimonio naturale per tutta la città e i suoi abitanti (presentazione della “Variante collinare al Piano Regolatore Generale della città” da parte del Comune di Bologna) e tre ricordi di Delfino scritti da Giorgio Forni, Mino Petazzini e Raffaele Mazzanti.
Delfino Insolera
Passeggiata geomorfologica
Chi sale sulla Torre degli Asinelli in un limpido mattino di primavera noterà subito il rapporto di particolare vicinanza che esiste fra l’area urbana di Bologna e la collina: dalla Torre alla Villa Aldini, che è già sul culmine del primo rilievo collinare, sono soltanto due chilometri. La distesa rossa dei tetti del centro storico, in lieve impercettibile pendio, sembra arginata da quel fondale necessario, contrastante per colore, di aspetto silvestre, movimentato da speroni che avanzano e valli che si allontanano; e nelle valli si allungano propaggini dell’insediamento urbano, lasciando sgombre le parti più alte, dove sorgono pochi edifici monumentali, chiese e ville: una ripartizione degli spazi ancora abbastanza felice, prodotto evidente di vecchia cultura, oltre che di recenti piani regolatori.
Un’occhiata a una carta geografica, o a una fotografia da satellite, mostra che nessuna città emiliana è così vicina al piede dell’Appennino: in nessun altro punto l’isoipsa 200 si avvicina tanto alla via Emilia, che pure corre parallela all’asse della catena, congiungendo tutti i conoidi alluvionali depositati dai fiumi allo sbocco delle loro valli. Si direbbe che in corrispondenza di Bologna e della valle del Reno, l’Appennino abbia voluto fare un passo avanti verso la pianura; e che in questo passo abbia incespicato, e la sua fronte avanzante si sia increspata, drizzando quel fondale che adesso chiude così bene l’orizzonte meridionale della città.
Il centro storico si è impiantato sugli antichi conoidi del Reno e del Savena: negli strati di ghiaia sepolti scorrono le acque sotterranee che da secoli danno da bere ai Bolognesi. Questi depositi fluviali finiscono subito fuori dalla circonvallazione, tra Villa delle Rose e i Giardini Margherita; e qui si potrebbe collocare l’ultimo lembo della Pianura Padana, rialzato e appoggiato al pendio più vivace delle prime falde appenniniche. San Michele in Bosco sorge su una fascia di antichi sedimenti marini, di mare basso, depositati su quello che era il litorale, prima del sollevamento definitivo dell’Appennino, nel Pleistocene. Villa Aldini, poco più indietro, è già a contatto con il Pliocene, sui depositi di mare profondo tradizionalmente noti come «Argille Azzurre».
Subito dopo si passa al Miocene superiore: questo periodo è caratterizzato spesso dalla presenza di formazioni gessose, e anche qui i gessi compaiono, a Monte Donato (e proseguono, con manifestazioni più imponenti, fuori del territorio comunale, alla Croara, al Farneto, a Castel dei Britti, fino al Torrente Quaderna).
Questa rapida successione dı formazioni, sempre più vecchie, a quote via via più alte, segna la presenza di una di quelle pieghe con la gobba in alto che i geologi chiamano anticlinali: questa è poco visibile sul terreno, perché costituita da materiali tutti di aspetto simile, quasi sempre argille, e coperti dalla vegetazione: ma la sua esistenza nel sottosuolo contribuisce al prodursi di quella varietà di forme, che vediamo in superficie, con il fitto succedersi di poggi e vallette. Il dorso più alto della piega è di marne del Miocene medio, un po’ più resistenti all’erosione: ospita antichissimi insediamenti monastici, come San Vittore e Ronzano, e il suo punto culminante è il Monte della Guardia, dove spicca il profilo ben noto del Santuario di San Luca.
Procedendo oltre l’asse della piega, si dovrebbero incontrare gli stessi terreni in fasce simmetriche: e infatti i gessi ricompaiono a Gaibola. Risalendo altre valli vicine, come quelle del Santerno o del Senio o del Lamone, la stessa successione di formazioni, fino ai gessi, si distende per una decina di chilometri: qui la si attraversa tutta a piedi in una passeggiata, perché occupa uno spazio dieci volte minore, compressa e raccorciata da quelle forze che spingevano in avanti verso la pianura. Movimenti come questo, di traslazione verso Nord-est, anche se diversi per entità e per effetti, si riscontrano in tutto l’Appennino emiliano-romagnolo: sono anzi manifestazioni delle forze stesse che hanno edificato la montagna.
Esclusivo, invece, della collina bolognese è un altro evento della storia geologica, che ne ha plasmato i paesaggi nella parte meridionale, più lontana dalla città: la presenza di un grande golfo, nel Pliocene, dove si versavano, a breve distanza l’uno dall’altro, diversi fiumi, precursori di quelli che vediamo oggi quasi allo stesso posto: Reno, Setta, Savena; cui si affiancavano, allora come oggi, il Lavino a Ovest, lo Zena e l’Idice a Est. Hanno scaricato in mare acque torbide di sedimenti, per migliaia di anni, costruendo una larga spiaggia e una serie di delta affiancati: sulle argille del fondo si sono accumulati grandi spessori di sabbie, induritesi poi in arenaria; costituiscono oggi le formazioni del «bacino pliocenico intrappenninico». Sono visibili perché più tardi una fetta di territorio, isolata tutt’intorno da profonde fratture, si è sollevata di più di 600 metri: il materiale dei delta, già press’a poco al livello del mare, si trova oggi a 655 metri d’altezza, sul Monte Adone; e il colle San Luca, già fondo marino, è a 290 metri. Alle linee di frattura corrispondono oggi: a Nord il brusco passaggio dalla collina alla pianura; a Ovest e Est le valli dove scorrono il Reno e il Savena, nella direzione che è tipica per i corsi d’acqua della regione, e che era probabilmente già la loro direzione originaria. A Sud, invece, la frattura è quasi parallela all’asse della catena appenninica: il Setta, sbarrata la strada dal sollevamento delle arenarie, vi si è incanalato: ha assunto così una direzione anormale, verso Nord-ovest, e questo l’ha portato a confluire nel Reno a Sasso Marconi. È un caso non comune nel nostro Appennino, che due fiumi importanti, nati entrambi sullo spartiacque principale, confluiscano prima di sboccare in pianura.
Resta così ben circoscritto un blocco di terreni in forma di trapezio allungato nella direzione da Sud-ovest a Nord-est, largo circa 5 km e lungo in media 15 km, alquanto accidentato, con altitudini per lo più fra 300 e 400 metri, depresso al centro e rialzato verso l’orlo meridionale, limitato tutt’intorno da fianchi ripidi che scendono verso tre valli ampie e profonde, e verso la pianura a Nord.
Questo territorio ha una fisionomia sua propria, che è l’impronta dei tre episodi fondamentali della sua storia geologica: l’avanzata verso Nord-est con l’increspatura frontale ha determinato l’aspetto della zona settentrionale, suburbana; il depositarsi degli apparati deltizi nel golfo intrappenninico ha deciso la sostanza di cui è fatta la zona meridionale; il sollevamento, avvenuto in epoca geologicamente recente, ha sovrapposto a tutto il suo effetto: una morfologia che corrisponde fedelmente alle strutture profonde e alla loro storia, un paesaggio di forme giovanili, dove un’erosione attiva ha intagliato molto, in un terreno prevalentemente argilloso e quindi poco resistente, ma non ha ancora avuto il tempo di arrotondare e livellare. Il territorio così individuato dalla natura stessa, tracciato con netti confini e omogeneo nella sua varietà, merita di essere definito «collina bolognese», anche se amministrativamente il territorio del Comune di Bologna comprende la zona settentrionale e una piccola parte soltanto di quella meridionale.
Le vie d’accesso da Bologna penetrano lungo i fondovalle, ma si portano presto sui crinali, e di qui si aprono vastissimi panorami; su Bologna e la pianura circostante, dalle prime alture; segnalando come punti di vista San Luca, San Vittore, Monte Donato, e la discesa dall’Osservanza, puntata come un cannocchiale sulla selva di torri e campanili del centro storico.
Dalla strada che corre sul crinale centrale si hanno vedute sulle valli del Reno e del Savena, anche contemporaneamente: da Sabbiuno, per esempio.
Un panorama immenso, sull’Appennino fino allo spartiacque principale, sulle colline e sulla pianura, quando il tempo è limpido fino alle Alpi e all’Adriatico, si ha dalla cima del Monte Paderno, nel cuore del nostro territorio, nel parco pubblico di Paderno.
Vedute diverse si hanno da ogni crinale: e molti crinali minori si diramano da quello centrale, perché, malgrado la poca estensione, la rete idrografica è fitta e complessa. Le acque defluiscono in tutte le direzioni, come era da aspettarsi in un territorio sollevato e isolato da ogni lato.
I corsi d’acqua più lunghi sono nella zona settentrionale; partono da un crinale trasversale un po’ irregolare e sono orientati verso Nord-est come il Reno, il Savena e la maggior parte dei torrenti appenninici: i più noti sono il Meloncello, il Ravone, l’Aposa, ricordati nelle storie e in numerosi toponimi. Incidono nell’orlo della collina valli strette e profonde, che rimangono ben definite anche quando arrivano ormai nella zona urbana, dove i corsi d’acqua scompaiono nel sottosuolo della città (ricompaiono più a Nord, come canali, e finiscono nel Reno, dopo un percorso che può essere anche molto lungo). Si tratta di ruscelletti di minime proporzioni, ma hanno i loro affluenti, e anche questi corrono in valloncelli profondi, tutti vicinissimi tra loro: ne risulta una grande varietà di ambienti, con diverse condizioni di luce, temperatura, umidità: quindi varietà di microclimi e di vegetazione. I freschi versanti esposti a Nord sono stati preferiti per le residenze estive, circondate da parco e bosco ombroso, ma anche da terreno agricolo: è il caso di Villa Ghigi, oggi parco pubblico; dove il versante di fronte è invece senz’alberi e coltivato.
Trovandoci su terreni soprattutto argillosi, e quindi impermeabili, il deflusso delle acque è irregolare, e dipende strettamente dalle piogge. Ma i ruscelletti, anche se di minima portata, non sono quasi mai secchi; e non mancano sorgenti, ricordate nella toponomastica (e soltanto lì, a volte): salso-iodiche (fonti di Casaglia o del Ravone), ferruginose (Barbianello), salate (Le Salse, in località Tre Portoni: luogo che si vuole citato da Dante).
Sorgenti, e idrografia speciale, si osservano sui terreni gessosi, che presentano, sempre in scala minuscola, anche un bel campionario di fenomeni carsici. A Monte Donato, Gaibola e Casaglia, anche passando distrattamente per la strada, è facile riconoscere il gesso affiorante, per il luccicare dei cristalli, ammassati con facce disposte in varie direzioni: sono frequenti i cristalli geminati a ferro di lancia o a coda di rondine, e i raggruppamenti a rosetta.
Il gesso può essere disciolto dall’acqua, che penetra in ogni frattura: perciò su questi terreni non ci sarà acqua in superficie e vi compariranno le forme tipiche dei paesaggi carsici: le cavità a imbuto chiamate doline, ben visibili a Monte Donato e Gaibola, dove l’acqua scompare al centro attraverso un inghiottitoio, per andare ad alimentare la circolazione sotterranea; le grotte, scavate dalle correnti d’acqua sotterranea: a Gaibola ce ne sono cinque (di non facile accesso: non è consigliabile cercare di visitarle senza una guida esperta) e c’è anche un torrente sotterraneo con una piccola risorgente, il Fontanino, che esce all’aperto a Sud-ovest della chiesa, e si versa nel Ravone.
Nelle grotte di Gaibola si sono riconosciute tracce di insediamenti umani di cultura neolitica. Il gesso è stato utilizzato nell’edilizia bolognese fin da epoca molto antica: di gesso erano le prime mura ricordate di Bologna, del V o VI secolo, e di gesso sono le basi delle torri, motivi decorativi, o semplici muretti. A Monte Donato come a Gaibola sono resti di cave non più attive.
Il gesso è una roccia evaporitica: si deposita da acqua di mare che evapora, per esempio sul fondo di stagni salati. Grandi quantità di gesso si incontrano lungo il margine orientale dell’Appennino, non solo in Emilia ma un po’ dappertutto, affiorante o sepolto, dal Piemonte alla Sicilia, come in altre località del Mediterraneo; si è depositato tutto in un breve intervallo di tempo, sul finire del Miocene: sembra che si debba ammettere che in quel momento il Mediterraneo sia stato isolato dall’Atlantico e sia evaporato, tutto o in gran parte. Un episodio probabilmente connesso con i movimenti che stavano facendo innalzare l’Appennino.
Addentrandosi nelle colline, e arrivando alle case e alla chiesa di Paderno, ci si affaccia a un paesaggio nuovo, completamente diverso. Sulla sinistra della strada di crinale appare un’ampia distesa di terreno nudo e con scarsa vegetazione, in discesa, minutamente intagliato da valloncelli separati da crestine affilate: tipo ben noto di paesaggio, chiamato «calanco» (parola probabilmente di origine antichissima, venuta alla lingua italiana dal dialetto bolognese).
I calanchi sono un prodotto dell’erosione: compaiono sui terreni argillosi, in certe circostanze non del tutto chiarite. La pioggia imbeve lo strato più superficiale, senza penetrarvi, e l’acqua scorre in basso trascinando fluide colate di fango. Poi, essiccando, la superficie si contrae e si rompe in un reticolato geometrico di fenditure. Non sarà difficile osservare smottamenti incipienti o in atto (se ne vedranno, per esempio, sul fianco destro dell’avvallamento occupato da questi calanchi).
Nei calanchi di Paderno affiora la formazione geologica più antica visibile sulle colline bolognesi, chiamata tradizionalmente «argille scagliose»: affiora qui, ma dobbiamo immaginare che prosegua sotto le altre rocce che vediamo, sotto la struttura di San Luca come sotto le argille e arenarie del bacino pliocenico intrappenninico. È una gran massa plastica che sorregge tutto e trascina tutto nei suoi movimenti: è questo il veicolo di quel moto di avanzamento che ha sollevato il colle di San Luca. La sua origine, apparsa per molto tempo oscura, è quasi certamente remota nel tempo e nello spazio: risale al Cretaceo e si è depositata su un fondo marino esistente allora all’incirca dove è oggi il Tirreno; è arrivata qui in una serie di franamenti sottomarini, scivolando sui pendi dell’Appennino in formazione, ricoprendo altri terreni preesistenti. Nel suo viaggio ha raccolto su di sé e trascinato formazioni geologiche diverse e più recenti: il colle di San Luca, e anche il Monte Paderno e il Monte Sabbiuno, che si innalzano ai lati del calanco, poggiano come zattere sulle argille scagliose (situazione che ha l’esempio più celebre nella Pietra di Bismantova).
L’origine lontana e il lungo trasporto hanno reso molto disordinata la struttura delle argille scagliose, come appare anche a un’osservazione superficiale: l’aspetto è eterogeneo, con numerosi inclusi di colori diversi, tra cui grossi banchi di argilla rossa, che interrompono la monotonia dello sfondo scuro grigio-piombo. In queste condizioni non è facile trovare fossili (se non microfossili). Più facile (ma è meglio non farsi illusioni) è trovare minerali; fra questi la leggendaria «pietra fosforica di Bologna», noduli di cristalli raggiati di baritina (solfato di bario), da cui si ricavava una sostanza fosforescente. Segnalata nel Seicento, è ricordata come una delle grandi attrattive di Bologna da tutti i viaggiatori del Settecento, compreso Goethe: se vogliamo credere che parlino tutti per esperienza fatta, bisogna pensare che fosse molto più comune di oggi.
Una strada che costeggia i calanchi scende verso la valle del Savena seguendo il corso del Rio delle Torriane, che, con il Rio Strione, raccoglie le acque dei calanchi, provenienti da un grande ventaglio di rivoletti. In questa zona del territorio collinare, più bassa, le acque scolano lateralmente, verso Est o verso Ovest, dal crinale centrale, che qui diventa molto stretto.
Proseguendo verso Sud, sul crinale, si sale girando intorno alla base della zattera miocenica di Monte Sabbiuno. Poi la vista si apre su una nuova distesa di calanchi, questa volta sul lato opposto della strada, in discesa verso la valle del Reno: sono i calanchi di Sabbiuno, scavati in argille molto più giovani, del Pliocene inferiore, più fini, omogenee, di colore chiaro, grigio-azzurro. Una rada vegetazione vi attecchisce e in certe stagioni li abbellisce di colorazioni variegate.
Queste argille costituivano il fondo del golfo pliocenico, sul quale cominciarono a depositarsi poi le sabbie portate dai fiumi, oggi consolidate in arenarie. Le arenarie, anche se non sempre ben cementate, sono le rocce più dure di queste colline; ma quando l’erosione porta via le argille sottostanti, i banchi di arenaria, rimasti senza appoggio, si fratturano, e se ne staccano lastre, che crollano lasciando pareti verticali. Se ci mettiamo alla testata dei calanchi (dove il Monumento ai Partigiani ricorda un feroce fatto di guerra), cominceremo a vedere davanti a noi, a sinistra e a destra, lo schieramento delle pareti di arenaria: sono i materiali degli antichi delta del golfo pliocenico.
A sinistra, verso la valle del Savena, un’erosione attivissima sta intagliando un versante di un poggio, mentre li versante opposto e ancora coperto dal mantello vegetale. Un grande torrione è rimasto isolato: è stato protetto fino a qualche anno fa da un cappello di suolo più resistente perché consolidato da un ciuffo di vegetazione; ora verrà lentamente smantellato. Il fantastico paesaggio di balze e torrioni può essere visitato da vicino salendovi da Pian di Macina, nella valle del Savena.
In queste argille è facile trovare conchiglie fossili (Pettini), soprattutto sul fondo dei valloncelli dopo una pioggia.
Superata la chiesetta di Pieve del Pino, l’intera formazione del bacino pliocenico intrappenninico, sulla quale ci troviamo adesso, sale verso Sud-ovest, con lieve e irregolare pendio, quasi sempre coperta da fitte boscaglie o da coltivazioni, solcata da profonde e fresche valli fluviali. A sinistra, verso Est, ossia verso il Savena, scende il vallone del Rio Favale, uno dei più lunghi corsi d’acqua di questo territorio. A destra, verso il Reno, le acque sono convogliate dal ventaglio dei Rii Ganzole, Sant’Ansano, Terzanello, Molinello: una grande frana in atto sta facendo crollare un po’ per volta la parete sul fianco sinistro del vallone del Rio Terzanello, travolgendo la strada per le Ganzole, che ha già dovuto più volte retrocedere.
E finalmente, chi arriva per la prima volta ad affacciarsi alla valle del Setta, scoprirà d’improvviso che il nostro territorio collinare finisce di colpo con un gran salto roccioso, allungato quasi senza interruzione da Monte Mario a Monte Adone, e ancora con prolungamenti oltre il Reno (la Rupe di Sasso Marconi, o Sasso Glòsina) e oltre il Savena, con le rupi di Livergnano e fino al lontano Monte delle Formiche. E questo il Contrafforte Pliocenico. Una veduta d’insieme, standovi sopra, se ne avrà, come è ovvio, dal punto più alto, cioè dalla vetta di Monte Adone.
Qui l’erosione, soprattutto del vento, scavando le parti meno resistenti delle pareti, ne ha messo in rilievo la stratificazione orizzontale: e allargando le fratture esistenti, perpendicolari agli strati, ha aperto intagli verticali, isolando pinnacoli, come le «Torri di Monte Adone», presso la vetta. In una di queste fratture, al piede della parete, si apre la «Grotta delle Fate»: ricordata dal Settecento, e certo frequentata dal Quattrocento, si vuole che fosse un tempio sotterraneo di presunti sacerdoti di Adone (da cui il nome del monte, in verità enigmatico).
La ripida parete del Contrafforte non lascia spazio a corsi d’acqua di qualche importanza: ma il Rio Raibano nasce dietro il crinale, scorre per un po’ sul versante Nord, poi attraversa il Contrafforte per un intaglio, là dove passava la primitiva valle del Setta, e scende sulle pendici di Monte Mario, a confluire nel Setta attuale.
Da Monte Adone si può scendere a Brento e Pianoro, nella valle del Savena: e lungo la strada si vedrà una parete di arenaria tempestata di prominenze sferoidali, concrezioni chiamate, con parola popolare accolta dal linguaggio scientifico, cògoli.
All’estremità opposta del Contrafforte, si può scendere nella valle del Reno, passando per il parco dei Prati di Mugnano, alle spalle del Monte Mario.
La discesa nelle valli adiacenti è consigliabile non soltanto come via di ritorno: alla varietà di motivi di interesse che la collina offre a chi la percorre, un’altra varietà si aggiunge per chi la vede dal basso. Seguendo il corso del Reno, per esempio, si noterà prima l’aspetto boscoso della zona settentrionale, poi l’aprirsi dei calanchi nelle argille plioceniche, poi le alte pareti d’arenaria che emergono sopra gli alberi; e in basso, non lontano dal casello di Sasso Marconi, si potrà vedere anche un meandro fossile del Reno, adesso esedra argillosa, che l’erosione sta scolpendo.
Ma naturalmente, per avere una degna veduta d’insieme del Contrafforte Pliocenico, bisognerà conquistarsi un punto di vista adeguato, di fronte e un po’ lontano: conviene salire a San Silvestro, sulla destra del Reno, o a Torre Iano, sulla sinistra, sopra Sasso Marconi. Verso il tramonto di un limpido giorno di maggio, la lunga muraglia di arenaria risplenderà dorata, sopra il verde intenso dei prati e dei campi che coprono le argille sottostanti.
Quanta varietà in poco spazio (e si capirà bene che non si è detto tutto, per non togliere il gusto di scoprire altre cose da sé): situazione ideale per soddisfare curiosità diverse, o soltanto per il piacere di camminare: e anche ricchezza di occasioni, a pochi passi da casa, per chi cerca il piacere di studiare.
Giorgio Forni
Delfino Insolera, un innovatore
Il 6 aprile scorso è stato l’anniversario dei cento anni dalla nascita di Delfino Insolera e purtroppo, anche a causa del Covid 19 che ha impedito lo svolgersi di alcune manifestazioni in sua memoria, è passato in silenzio. Difficile definire la personalità multiforme di un uomo come Delfino Insolera, spesso banalmente definito (come peraltro a lui piaceva considerarsi) divulgatore scientifico. Laureato in ingegneria a Roma nel 1943 e poi in filosofia a Milano nel 1951, dopo alcune esperienze alla Siemens ed alla Olivetti nel 1960 entrò alla Zanichelli di cui fu direttore editoriale dal 1960 al 1970 continuando la sua collaborazione con la casa editrice come consulente fino alla sua morte avvenuta il 23 dicembre 1987.
Gli anni della Zanichelli dopo l’arrivo di Insolera furono anni nei quali la sua spinta innovativa trovò un terreno fertile pronto a trasformarsi in un centro di lavoro e di creazione collettiva di importanza tale da modificare profondamente non solo lo stile della Casa Editrice, ma il modo stesso dell’insegnamento finalizzato principalmente a introdurre in Italia una cultura scientifica nella scuola. Peraltro se la scienza rimase il suo principale mondo di elezione, non minore fu il suo contributo in altri campi quali la innovativa collana di narrativa per la scuola media con guide alla lettura che introdussero metodi di analisi strutturale delle opere. La sua personalità e la sua forte impronta fu tale da rivoluzionare non solo il mondo della didattica all’interno della casa editrice, ma a livello nazionale.
Ma chi era Delfino Insolera? Ho avuto la fortuna ed il privilegio di conoscerlo e di essergli amico negli ultimi anni della sua vita, nei quali, nella veste di Presidente della Fondazione Villa Ghigi diede la sua forte impronta anche nel campo della didattica naturalistica ed ambientale creando quel centro di eccellenza, polmone verde della nostra città e così amato dai bolognesi che lì si sono educati ad amare, conoscere e rispettare la natura ed i suoi abitanti.
Non aveva carattere facile, ed il suo rigore morale e culturale non ammetteva cedimenti così che al primo approccio spesso risultava sgradevole apparendo falsamente dogmatico, cosa ben lontana dalla sua vera indole profondamente dialettica, e rinchiuso in una apparente durezza che in un rapporto più intimo e sereno poteva trasformarsi in garbo e tenerezza. Mi ricordo la prima volta che venne nel mio giardino di cui andavo molto orgoglioso. Ci eravamo appena conosciuti e mi raggelò criticandone l’impostazione e molte specie arboree, fra le quali alcune robinie rosse delle quali andavo molto fiero, perché non autoctone.
Capii poi che aveva ragione e dal suo primo impulso è derivata una mia radicale rivisitazione del mio rapporto con le specie botaniche ed il loro inserimento nell’ambiente ed una diversa impostazione del giardino. E così quando per alleggerire l’imbarazzo passai dalla botanica alla musica, ahimè ci scontrammo su Verdi da me molto amato e che a suo parere era autore di marcette e valzerini e troppo cedevole ai sentimenti, per ritrovarci fortunatamente uniti e concordi su Bach e soprattutto sulla musica medioevale e sulla poesia trobadorica della quale era grande appassionato ed esperto e raffinato conoscitore e sulla quale si consolidò la nostra amicizia.
La sua profonda conoscenza della geologia, una delle sue non poche passioni, lo portò a studiare e ad amare il territorio collinare bolognese che esplorava unendo il piacere del paesaggio all’analisi della conformazione morfologica del terreno. In un suo scritto che appunto con il titolo “passeggiata geomorfologica” è stato recentemente pubblicato nel sito della Fondazione Villa Ghigi e del quale consiglio vivamente la lettura, partendo dall’alto della torre degli Asinelli spazia con un linguaggio di raffinata qualità letteraria in un affascinante percorso collinare da Gaibola a Sasso Marconi. Goethe visitò i calanchi di Bologna e gli strani minerali tanto amati da Delfino che lo cita nello scritto indicato, e la cosa mi ha colpito in quanto da sempre me lo sono raffigurato un po’ come un novello Goethe a zonzo fra calanchi e Contrafforte Pliocenico unendo l’amore per l’approfondimento, la sistematicità e la didattica scientifica a quello per la filosofia, la poesia, la letteratura.
Mino Petazzini
Il Giardino Delfino Insolera
Per concludere vorrei parlare di un giardino che non c’è, ma del quale si è qualche volta parlato. Un giardino da intitolare a Delfino Insolera, che è stato il primo presidente del Centro Villa Ghigi e la persona alla quale devo anche il fatto di essere qui, a ragionare di queste cose. Ci sono ancora tanti giardini senza nome e Insolera a buon diritto credo possa averne uno tutto suo, per ricordare quanto sia stato importante per la vita culturale della città e per tutti quelli che hanno avuto il privilegio di conoscerlo. La via più semplice sarebbe, come è ovvio, scegliere uno dei tanti giardini che già esistono e non hanno ancora un nome, ma individuarlo non è facile, anche perché Insolera non si merita un giardino qualsiasi. Così ho provato a immaginarlo, per avvicinarmi se possibile allo scopo.
Intanto mi piacerebbe che fosse in città, magari non proprio nel centro storico, ma nemmeno troppo lontano. Insolera amava le città, esattamente come amava la natura, dentro e fuori dalle città. Dovrebbe essere un posto dove possano andare gli studenti, i giovani, che gli piaceva avere intorno e che ha passato la vita a educare, senza aver quasi mai insegnato in una scuola. Non dovrebbe essere angusto, ma nemmeno troppo grande. Insolera non gradiva le cose troppo vistose. Non dovrebbe essere un giardino del tutto nuovo, ma un giardino nuovo, forse, che include qualche angolo più antico. Niente di storico, per carità, solo uno scorcio d’altri tempi, nemmeno troppo lontani da questo, come una vecchia muraglia rivestita di rampicanti. Dovrebbe esserci qualche albero già cresciuto, che faccia ombra, che nasconda una parte del giardino allo sguardo, che richiami le ombre della sua vita e i momenti di sofferenza lontana, celati nella riservatezza, che riverberavano nel presente. Un giardino comune ma insieme strabiliante, com’era strabiliante la sua mente (per usare una definizione usata da Carlo De Carlo in una recente intervista). Non dovrebbe avere niente di troppo speciale o ricercato, ma vorrei che potesse corrispondere almeno un poco a una frase di uno scrittore inglese del ‘700 che mi sono appuntato anni fa: “In ogni particella del mondo che noi definiamo bellissima c’è una estrema uniformità tra quanto è infinitamente diverso”. Dovrebbe essere semplice, ordinato, leggibile, ma contenere in sé qualcosa di trascurato o, ancora meglio, di casuale. Qualcosa che contraddica l’ordine e ne prefiguri un altro, che non si sa bene come sarà. Pochi arredi, di solida sobrietà. Una fontanella d’acqua. Ma forse di acqua ce ne vorrebbe di più. Uno stagno. Un piccolo ponticello, forse. Un’atmosfera di razionalità, ricchezza interiore, promesse. E la città moderna che si mostra in qualche modo, che appare.
La scelta delle piante. Sicuramente ci vorrebbe almeno una ginkgo, che era un albero che amava, e poi piante dei boschi e delle campagne. Ma non soltanto. Anche qualche altra specie che sia inaspettata e bella, e magari racconti un frammento della lunga storia dell’evoluzione. E qualche fiore in un angolo ombroso, che spunti prima delle foglie degli alberi. Un luogo dove entrare in punta di piedi e sentirsi a proprio agio. Nessun gioco prefabbricato per bambini, ma qualche angolo dove i bambini possano aver voglia di giocare con qualcosa che viene inventato sul momento, attratti da un particolare, poi da un altro. E un altro angolo per quelli che hanno voglia di scoprire qualcosa del mondo naturale, semplicemente guardando i ragni, le formiche, le farfalle. Non un giardino didattico, non qui. Dovrebbe essere soprattutto uno sfumato giardino della memoria. Un riflesso di come potrebbe essere l’ho intravisto, non saprei spiegare bene perché, in alcuni versi del poeta inglese Thom Gunn:
Remoto, ora vive dentro uno specchietto / Impietrito per sempre a uno stadio della crescita. / Gli alberi hanno foglie, e i bimbi tutto il giorno / Ridono in quel continuo andare senza sforzo / A mete nascoste lungo i sentieri d’erba. // Trattengo ancora l’Eden nei muri del giardino. // Non era innocenza perduta, non era innocenza // ma una sottile incallita incostanza capace di fissarsi // su ogni novità cui la mente o i sensi // si volgessero, solo importando il soddisfacimento, e chiusa / la scatola degli attrezzi per quella del prestigiatore. // Sono io stesso adesso il giardiniere, e so, / sebbene libero di lasciare il sentiero e spiccare / maturi dal ramo i gialli e rossi, / che sono responsabile di questo ordine / (il tempo che ci vuole a insegnare ai frutti a crescere, / le cure a mantenere queste aiuole). // Quel po’ d’innaffiare che faccio è un piacere // Lascio che gli uccelli pranzino con mele e pere, / non uso cesoie né rastrello / non lego i rami più pesanti, / tralascio d’estirpare e il tempo libero l’impiego / a oziare sui tappeti erbosi o in riva al lago…
Da qualche parte, sotto la ginkgo, su una pietra o una targa, mi piacerebbe che si scrivesse una frase, una delle ultime che Insolera ha scritto, che credo sia anche stata la sua prima e sola poesia:
“I liberi campi della vita / Gli uomini inseguono sogni e vivono passioni / Su tutto come una pioggerella fresca di primavera / Piove la luce tranquilla della ragione”.
Mi piacerebbe che una volta all’anno quelli che lo hanno conosciuto si mettessero d’accordo per trovarsi nel giardino che porta il suo nome e si fermassero, chi più chi meno, a passeggiare o a chiacchierare, e lo ricordassero in questo modo. Di sera, perché dovrebbe essere aperto anche di sera, a Insolera piaceva fare tardi, lo immagino illuminato in qualche punto e per il resto lasciato alla luce della luna. Le chiome scure di qualche albero che creano un effetto di bosco, i rumori della città presenti ma attenuati, una piccola struttura dove mangiare e bere qualcosa, per una volta elegante e discreta, e qualche tavolino all’aperto. E a mezzanotte qualcuno che chiude il cancello. Non ci vorrebbe altro. E questo viaggio è finito.
Raffaele Mazzanti, architetto, urbanista, docente universitario e per un periodo anche assessore e poi sindaco di Sasso Marconi, ci ha inviato questo bel ricordo di Delfino e di una guida del Parco agricolo naturale dei Prati di Mugnano, che per qualche ragione non venne conclusa e pubblicata.
Raffaele Mazzanti
Per la Fondazione Villa Ghigi in occasione del centenario della nascita di Delfino Insolera
“Che bella frana” disse Delfino convinto e -mi parve- quasi soddisfatto.
Lo guardai stupito ed anche, forse, un po’ irritato.
Di fronte a noi, la visione di un lungo pezzo di strada – già scivolato a valle di una decina di metri – che minacciava di andarsene ancora più giù, interrompendo irrimediabilmente l’unica via di comunicazione collinare fra Bologna, Sasso Marconi, Badolo-Monte Adone e la valle del Setta.
Eravamo all’inizio degli anni ’80, quasi al quadrivio fra la strada di crinale che sale da San Mamolo e il collegamento fra le valli del Reno e del Savena, via Ganzole-Pian di Macina.
Lo spettacolo offerto dalla visione di quella frana (allora ero Assessore al Comune di Sasso) mi angustiava non poco, soprattutto dopo il fallimento di alcuni tentativi di ripristino fatti dalla Provincia.
Niente cui riuscissi ad attribuire alcuna valenza estetica.
“Che bella frana” mi parve allora un’osservazione un po’ cinica, quasi oltraggiosa, di fronte al lavoro e all’impegno di tante persone ed all’inutile impiego di così ingenti risorse economiche pubbliche.
Stavamo andando ancora a visitare insieme i sentieri del Parco Prati di Mugnano che avevo progettato una decina d’anni prima insieme a Umberto Bagnaresi, Sandro Canè e altri: avevo chiesto a Delfino di occuparsi della stesura e della pubblicazione di una guida del Parco. Qualche volta, strada facendo, ci eravamo fermati per una sosta sulla terrazza di un barettino subito dopo il bivio della via di Ancognano, dove Paselli, un oste minuto, riservato e gentile, serviva panini al prosciutto, cipolline sottaceto e un bicchiere di rosso denso e carico di gradi delle uve dei colli lì intorno. Di fronte, il profilo tormentato di un calanco in continuo movimento che ci promettevamo di tornare a fotografare negli anni a venire a scadenze regolari per documentarne l’evoluzione (ma, purtroppo, anche di quell’intento non ne facemmo poi niente). Oggi la piccola osteria è chiusa e la cresta di quel calanco è ancora lì e continua a cambiare, fra periodi di stasi e nuovi crolli.
“Che bella frana” quasi mi offese: poi capii, o così mi sembra.
Era proprio nello spettacolo offerto dalla frana, nel suo mostrarsi in maniera chiara, come fenomeno esemplare per tutte le proprie cause e conseguenze in bella vista, che stava la ragione di un suo possibile apprezzamento estetico: la bellezza dell’intelligenza, del capire e del far capire.
La frattura dell’asfalto, le viscere del sottofondo ghiaioso sconvolto, il rigagnolo dell’acqua che continuava a scivolare sullo strato impermeabile di argilla riemerso, gli alberi divelti o via via inclinati e, tutt’intorno, i colori e le forme di una natura che si riproduce, attraverso l’alternarsi delle stagioni, sempre diversa e sempre uguale a come li avrebbero visti secoli e secoli fa un antico soldato romano o un cittadino etrusco di passaggio da quelle parti.
Quella situazione ci offriva l’immagine perfetta, completa di ciò che avremmo potuto e voluto mostrare a chi di frane non sapesse ancor nulla.
Ripensando a Delfino, mi torna in mente Musil: “Quando Ulrich contemplava un fiore… se per caso ne conosceva il nome, era un salvataggio dal mare dell’infinito. Allora le stelline auree su uno stelo nudo volevano dire “botton d’oro” e quelle foglie e corimbi precoci erano “lilla”. Se invece il nome gli era ignoto chiamava il giardiniere; allora il vecchio pronunciava un nome sconosciuto, tutto era a posto, e l’antichissima magia del possesso della parola esatta che protegge contro l’indomata selvatichezza delle cose esercitava il suo potere lenitivo come diecimila anni fa… L’Io non intende mai le proprie impressioni e produzioni singolarmente, ma sempre in correlazione, in reali o immaginarie, in simili od opposte concordanze con altro; così tutte le cose che hanno un nome si reggono a vicenda in serie, in rapporti, membri di complessi immensi e impenetrabili, gli uni poggianti sugli altri, e percorsi da tensioni comuni. Ma proprio perciò,… se per qualsiasi motivo le correlazioni fanno cilecca e le serie dei ragionamenti non collimano… la comprensione cede il posto a uno stupore inesauribile, e il più piccolo fatto… diventa incomparabile, unico al mondo, ha un’individualità insondabile e produce un profondo sbalordimento.” (Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, 1962, trad. di Anita Rho)
Di quella guida al Parco Prati di Mugnano, dopo che in qualche modo ce ne occupammo in tanti, giovani ancora sconosciuti o affermati docenti, non se ne fece poi niente: Delfino – quasi scusandosene – mi disse che, fra le pieghe di quei monti, aveva scoperto qualcosa che sarebbe andata distrutta e irreparabilmente perduta se se ne fosse divulgata la conoscenza. Non mi disse mai di cosa si trattasse: forse il segreto che si è portato dietro, non fidandosi nemmeno di me, sta ancora nascosto in qualche suo quaderno o foglietto di appunti: oppure non sta proprio più da nessuna parte, se non nell’angolo introvabile di un bosco o di una parete di arenaria.
O solo sta nel ricordo di un uomo, scorbutico la sua parte, ma allo stesso tempo a suo modo affettuoso, nel ricordo (che credo sia l’unica forma di sopravvivenza possibile) di chi ha inseguito sogni impossibili e vissuto passioni che lo hanno portato anche oltre i limiti del ragionevole ma ha sempre saputo sottoporre gli uni e le altre al vaglio ed al lavaggio voltairiano della pioggia della ragione; pur se dolorosa quando si lavano ferite aperte.
Anche se parliamo di qualcosa che ho sentito e sento in comune con tanti amici – alcuni (anche se ormai pochi) fortunatamente ancora in giro da queste parti – che riguarda i rapporti e le non sempre pacifiche relazioni e reciproche influenze fra intelligenza e bellezza.
Sasso Marconi, estate 2020